Nella splendida cornice di Villa Ottolenghi a Borgo Monterosso: il tempio di Herta

Il mausoleo, oggi tempio di Herta, è una costruzione di pertinenza a Villa Ottolenghi, dimora degli anni Venti voluta da Arturo Ottolenghi e dalla moglie Herta Von Wedekind, mecenati e fautori di un centro per le arti di alta valenza simbolica ed architettonica. Nel piano originale dell’architetto Federico D’Amato l’edificio doveva essere un tutt’uno con la parte residenziale ma quando nel 1928 d’Amato dovette lasciare il progetto per motivi di lavoro, subentrò a lui un grandissimo architetto, noto per essere "l'architetto del Duce" si trattava di Marcello Piacentini.       Piacentini è l’architetto simbolo di un particolare schema di arte fascista legato ad un inquadramento geometrico delle forme che si può ammirare in alcuni suoi lavori tra i quali, il quartiere Eur a Roma, moltissime piazze in Italia (Genova, Brescia) abbellite da archi di trionfo. Del progetto iniziale del suo predecessore, Piacentini mantiene la posizione in quota del Mausoleo ma sposta al vertice della collina la parte residenziale. Il tempio a pianta circolare, supera i venti metri di altezza ed è attorniato da un parco di vecchi pini che avrebbe dovuto prendere il nome di “Paradiso terrestre” per la presenza di sculture tra cui l’Adamo ed Eva dell’artista trevigiano Arturo Martini.                                                                       

Le colonne del porticato sono in marmo di Candoglia, lo stesso usato per la costruzione del duomo di Milano; la struttura possiede qualcosa di classico e di perfetto grazie a linee austere. Alle quattro colonne fa seguito un corpo longitudinale sormontato da una cupola terminante con un’abside semicircolare sorretta all’esterno da colonne cilindriche: una meravigliosa sinfonia architettonica, come la definì lo stesso architetto, per l’unione tra forme antiche e moderne. L’interno è centrato su una struttura rotonda terminante nella cupola, il tutto è impreziosito ed abbellito dalle pitture ad encausto di Ferruccio Ferrazzi dal tema “Le opere ed i giorni” in cui l’artista prende spunto dal capolavoro del poeta greco Esiodo, il quale narrò la vita del ceto contadino in Grecia fin dal VII secolo A.C.. Il tema itinerante di queste pitture è lo scandire della vita rappresentato dalla nascita e dall’aurora fino ad arrivare all’età della vecchiaia ed alla morte.

La parte più preziosa del lavoro del Ferrazzi si trova nella cripta che conserva il mosaico della Apocalisse realizzata dapprima  dalla scuola del Vaticano e poi da quella di Ravenna; la figura dominante è quella del Cristo con ai lati il conflitto tra bene e male, l’eterna lotta tra la morte e la Resurrezione. All’immagine della tragedia con il Cavaliere dell’apocalisse bendato che, armato di bilancia, pesa le anime stabilendone la condanna, si contrappone la visione calma e serena con un paesaggio di campi arati frutto del duro lavoro dell’uomo giusto. La sala è abbellita da colonne di marmo rosso di Verzegnis (prov. Udine) e da una illuminazione naturale donata da infissi dotati di lastre di alabastro.                                                                                           

Una importantissima citazione la meritano i maestri Ferrari, artistidel ferro battuto, per la progettazione e la lavorazione dell’immenso portone alto cinque metri costituito da trecento borchie, una diversa dall’altra tutte con disegni incisi con la tecnica del bulino. Il portone ha un meccanismo di chiusura chiamato giustamente “leonardesco” poiché, malgrado la grandezza e la pesantezza, si muove agevolmente con la precisione di uno scrigno. Ogni tratto è istoriato alla maniera antica con simboli geometrici, animali e stemmi tra cui domina il simbolo dei Ferrari con l’incudine, le foglie di alloro, le scintille del battere del ferro e la croce segno dell’amore per il loro mestiere. Aprendo il portone si è attirati dai meravigliosi riflessi che creano i vari metalli avvicinati in un’armoniosa fusione con le loro cesellature: i bagliori dell’ottone e del rame accanto all’argentea lucentezza del nichel e del ferro. Inoltre nelle due ali del portone si possono ammirare gli stemmi delle due famiglie committenti con i loro simboli araldici ed i loro motti: Aedificavimus fidenter degli Ottolenghi e Nil differre dei Von Wedekind.

PATRIZIA VULPES fa parte de LA RETE di restauroeconservazione.info ed è una delle guide di Villa Ottolenghi, se vuoi avere informazioni scrivile all'indirizzo: boccina@gmail.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *