La manutenzione programmata in chiave preventiva: un articolo ne parla
Da qualche mese sono diventata membro effettivo del Gruppo Qualità Legno – siglato GQL – costituito dai membri firmatari del manifesto "Del buon costruire con il legno" (25 ottobre 2017), redatto in autonomia da alcuni fra i più riconosciuti esperti in materia. Lo scopo del gruppo – che si è formato liberamente – è quello di contribuire alla promozione di una diversa visione dell'impiego del legno strutturale.
Il Direttivo del Gruppo Qualità Legno vanta esperti della materia che vanno dal Presidente Felice Ragazzo, docente del Corso di laurea in Disegno Industriale presso l'Università la Sapienza di Roma, al Professor Franco Laner Ordinario di Tecnologia dell’architettura all’IUAV di Venezia, la cui attività di ricerca riguarda la storia della tecnologia, i sistemi costruttivi antisismici, la sperimentazione di materiali edili in particolare del legno e del laterizio, al giornalista ed editore, Almerico Ribera, che ha pubblicato e diretto numerosi periodici nel settore dell’Architettura e tecnologia del legno all'ingegnere Alex Melotto, all'imprenditore Romano Ugolini e al dott. in Scienze Forestali Andrea Zenari oltre ad una lunga serie di liberi professionisti cultori ed esperti della materia che sono entrati a far parte del gruppo con entusiamo ed interesse.
Il recente crollo del tetto della Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami a Roma è stato motivo di valutazioni e considerazioni sul tema dei restauri e sulle difficoltà legate all'esercizio della libera professione allorquando il professionista si trova a dovere affrontare problematiche pregresse che si riflettono inevitabilmente sul restauro in corso. A seguito di alcune mie considerazioni esposte semplicemente tramite un carteggio di email, sono stata invitata a comporre un breve contributo sull'argomento. Ho quindi deciso di ricollegarmi ad un vecchio articolo pubblicato sul trimestrale ITER nel lontano 2009 dove parlavo di "manutenzione programmata" per evidenziare come, a distanza di circa 10 anni, il tema della manutenzione sia ancora "snobbato" e dedicato a pochi, rasi casi di estremo interesse storico-artistico.
Ripropongo qui di seguito l'articolo che trovate pubblicato sul blog di GQL al seguente link.
La manutenzione deve essere pianificata in chiave preventiva non dopo un tragico evento
Ed è proprio questo il problema: accertiamo i fatti sempre dopo avvenimenti tragici mai prima o durante.
Nel luglio 2009 in un mio contributo[1] pubblicato sulla rivista trimestrale “Iter. Ricerche fonti e immagini per un territorio” affrontavo il tema della manutenzione programmata prendendo spunto da un seminario al quale avevo partecipato a Genova tenuto dal Prof. Mauro Matteini sul tema “La diagnostica dei beni culturali”. Durante il seminario veniva evidenziato il ruolo del monitoraggio come “diagnostica nel tempo”, sottolineando l’importanza di una corretta programmazione della manutenzione. L’obiettivo della manutenzione è quello di mantenere nel tempo i risultati raggiunti con il restauro mediante pratiche periodiche che consentano di attenuare gli effetti dei fattori di degrado sia di tipo ordinario (azione degli agenti atmosferici) che straordinario (eventi calamitosi come alluvioni e/o terremoti).
Il tema del controllo programmato è affrontato anche dal Codice degli Appalti DPR 207/2010 che proprio all’art.38 parla di Piano di Manutenzione dell’opera come di un “[…] documento complementare al progetto esecutivo che prevede, pianifica e programma, tenendo conto degli elaborati progettuali esecutivi effettivamente realizzati, l'attività di manutenzione dell'intervento al fine di mantenerne nel tempo la funzionalità, le caratteristiche di qualità, l'efficienza ed il valore economico […]”.
Una corretta pianificazione della manutenzione in chiave preventiva oltre a consentire la raccolta di informazioni utili allo sviluppo di ricerche per il miglioramento delle metodologie e dei materiali, permette di individuare su ciascun manufatto quelle che possiamo definire le “zone critiche” maggiormente interessate dall’insorgenza ricorrente del degrado e di sviluppare specifiche soluzioni progettuali atte ad ovviare problemi cronici che tendono a riproporsi ciclicamente.
Nel caso pratico di tutti i giorni si prestano davvero tutte queste attenzioni? A quanti è capitato dopo avere seguito un intervento di restauro di essere ricontattati dalla Committenza per appurare lo stato di conservazione a distanza di uno o due anni? E quante volte capita di intervenire su beni degradati a causa della banale assenza di manutenzione ordinaria o straordinaria (malfunzionamento dei sistemi di smaltimento delle acque reflue, scivolamento dei coppi sul manto di copertura, assenza di fermacoppi, scorretta areazione dei locali…)?
A ciò si aggiunga l’evidente appesantimento degli iter autorizzativi che, nella tanto celebrata era della semplificazione digitale, si stanno progressivamente complicando con l’introduzione della trasmissione telematica delle pratiche che sta svilendo il naturale contatto tra chi progetta e chi controlla rendendo l’iter assolutamente anonimo e unicamente teso all’esatta corrispondenza documentale, spesso senza accertare l’effettiva corrispondenza tra i lavori progettati e quelli effettivamente eseguiti e prescindendo dalla naturale “possibilità” di potere sbagliare. La famosa frase “quattro occhi controllano meglio di due” lascia ormai il tempo che trova.
Sul tetto improvvisamente crollato della Chiesa di Roma i media hanno subito avviato un processo sommario sulle responsabilità del progettista che ha seguito l’ultimo intervento di restauro, gridando allo sperpero di denaro sui beni pubblici.
Di fatto, però, forse non molti sanno che spesso il restauro di un edificio religioso è gestito dalle Diocesi secondo le regole dell’appalto privato (nessuna gara nè nella scelta del progettista né nella scelta dell’impresa esecutrice) e pertanto l’unico ente terzo che davvero vigila sui lavori è la Soprintendenza attraverso la raggiera dei suoi funzionari che ormai, però, sono stati ridotti all’osso, accorpati dalla necessità di un’unica Soprintendenza, con pochi fondi a disposizione per i controlli in cantiere e totalmente oberati dalle burocrazie d’ufficio. E se ci sono evidenti limiti negli appalti privati ci sono parimenti limiti nelle interminabili lungaggini burocratiche di quelli pubblici, che non partono mai, che si fermano dopo ogni riserva, che lievitano dopo ogni variante in corso d’opera… Quello che sta capitando è purtroppo specchio dei tempi che stiamo vivendo e della velocità con la quale crediamo di potere affrontare e risolvere ogni problema: argomenti sui quali riflettere tutti insieme.